Il codice di procedura penale già offre gli strumenti adatti per realizzare gli obiettivi che si pone la riforma Cartabia. Non servono, quindi, ulteriori norme per la riduzione della durata dei processi o nuovi strumenti deflattivi. Basta applicare in modo corretti quelli che già ci sono. Ne è convinto Francesco Isolabella, partner dello Studio Legale Associato Isolabella.
Come è cambiata l’attività dell’avvocato penalista con l’emergenza sanitaria?
Direi che non è cambiata affatto. Anzi, l’emergenza sanitaria ha riaffermato la caratteristica principale dell’avvocato penalista e, più ancora, del Diritto, ossia il fatto di essere interpreti del proprio tempo. Tempo che si è modificato, in particolare, negli ultimi 30 anni, con l’evoluzione del diritto penale di impresa. A mio avviso, il Covid non ha affatto aperto nuove frontiere del diritto ma, più semplicemente e drammaticamente, ha provocato una frenata così violenta dello sviluppo culturale, sociale ed economico della nostra società da indurre interventi così urgenti e improvvisi da generare una serie di effetti a loro volta traumatici e quindi di rischi correlati, tra cui quelli penali: a conferma del fatto che il Covid non ha cambiato affatto il Diritto e che, anzi, è proprio il Diritto a offrire forse una più corretta lettura delle caratteristiche e degli effetti giuridici e giudiziari connessi al Covid.
Passiamo alla riforma del Processo Penale. Cosa ne pensa?
Si tratta perlopiù di deleghe per la cui concreta applicazione serviranno i relativi decreti attuativi. A eccezione di alcuni aspetti, come per esempio in tema di improcedibilità e di prescrizione del reato. Gli aspetti più interessanti della riforma, però, sono ancora in divenire, e sono relativi per esempio alla riduzione del tempo di durata dei processi e all’introduzione di strumenti deflattivi.
Ce li può illustrare?
Il Legislatore ha deciso di offrire più spunti indirizzati, da un lato al tentativo di accelerare il percorso volto all’accertamento giurisdizionale e dall’altro, al tentativo di liberare le scrivanie dei magistrati. Per esempio è intervenuto sui presupposti che regolano l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. (che regola la “particolare tenuità del fatto”) e dell’art. 168 bis c.p. (che regola l’istituto della “messa alla prova”), permettendo in tal modo un intervento più ampio di questi istituti, con il risultato di liberare il dibattimento da processi privi del disvalore necessario a giustificare l’impegno di tempo, di personale e di energie che richiede la fase più strettamente processuale. Nel nostro ordinamento vige l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, per cui è più complicato ipotizzare strumenti deflattivi del dibattimento fondati sull’accordo tra Accusa e Difesa. Quello della legge delega rischia quindi di trasformarsi in un tentativo più formale che sostanziale. Tra l’altro, non sono neppure sicuro che lo stesso codice di procedura non offra, per come è strutturato sin da ora, alcuni strumenti utili in tal senso. Come per esempio l’art. 408 c.p.p., che già prevede la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero in caso di infondatezza della notizia di reato. Il tema vero, quindi, potrebbe non essere tanto o non solo quello di dotare l’ordinamento di ulteriori strumenti, ma forse quello di un più corretto e generale utilizzo degli strumenti di cui già dispone, per esempio, introducendo criteri generali e condivisi sul concetto di “infondatezza della notizia di reato”. Ancora e più rilevante in tal senso appare l’art. 425 c.p.p. che impone al Gup di emettere sentenza di non luogo a procedere in vari casi, tutti implicanti una vera e propria valutazione di merito capace di risolvere, escludendolo, il massiccio e spesso inutile ricorso al dibattimento. Siamo quindi veramente sicuri che sia così necessario sostenere gli enormi sforzi che l’introduzione di nuove norme comporta, piuttosto che cercare di applicare quelle che già ci sono?