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Da "Geppi" allo studio-azienda: 50 anni di carriera... da film

Da “Geppi” allo studio-azienda: 50 anni di carriera… da film


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Luigi Macchi di Cellere racconta a Le Fonti Legal la sua professione dagli inizi a oggi. Le gag con il “padre-padrone” Bisconti, l’avvio dello studio con Gangemi, la mancata partnership con Francesco Gianni. E oggi il passaggio generazionale da affrontare

Via Veneto, Roma, anni Settanta. Tra la folla di turisti si fa largo una Bentley: al volante l’autista e seduto dietro un avvocato. La macchina si ferma a fianco a una Cinquecento color corallo parcheggiata, l’autista scende, apre la portiera, e accompagna l’avvocato all’utilitaria. I turisti osservano a bocca aperta: è un film? Quasi.
[auth href=”https://www.lefonti.legal/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]L’autista altri non è che Giuseppe Bisconti, detto “Geppi”, astro nascente nei primi anni Sessanta con il “boom” economico e divenuto uno degli avvocati più influenti degli anni Settanta e Ottanta che, per paura dei rapimenti, girava in Bentley indossando un berretto da autista. L’avvocato seduto dietro, e proprietario della Cinquecento, è invece Luigi Macchi di Cellere, allora giovane collaboratore dello studio Bisconti. Stanno improvvisando una gag, una delle tante che si inventava Bisconti. Quando non impartiva ordini. Erano infatti gli anni in cui gli studi legali erano unipersonali, legati a stretto filo alla figura del padre-fondatore di cui portavano il nome. Al quale, però, spesso non riuscivano a sopravvivere. Prima di allora, a spartirsi i grossi affari e clienti, nazionali e internazionali, erano fondamentalmente in tre: “Ercolino” Graziadei, Pasquale Chiomenti, i fratelli Carnelutti.
A raccontare quegli anni, gli aneddoti e come si è evoluto il mondo degli avvocati d’affari è Luigi Macchi di Cellere, parte del team di Bisconti di allora. Non un semplice gruppo di avvocati. Per qualità, somiglia infatti alla nazionale di calcio del Brasile del ’70: oltre a Macchi, ne fanno parte Bruno Gangemi, Francesco Gianni, nipote di Bisconti, Gianbattista Origoni, Mario Tonucci, Egidio Rinaldi, Carmelo Alessio, Alberto Montanari. Praticamente, quella che sarebbe diventata l’élite della generazione successiva di avvocati. «Eravamo un gruppo fantastico, perché Bisconti aveva un occhio eccezionale nello scegliere i suoi collaboratori». E l’occhio non poteva che cadere su di lui, Macchi, avvocato dalla formazione “internazionale” negli anni in cui erano in pochi a poter vantare quattro lingue e un master all’Università del Michigan.

D’altra parte, la sua storia è singolare sin dall’inizio. «Sono nato a Tokyo da una famiglia di diplomatici che era stata inviata in Giappone. Prima che il Giappone entrasse nella seconda guerra mondiale, però, io e mia madre, che era argentina, ci trasferimmo in Sud America. Mio padre rimase in Giappone e, dopo l’8 settembre del ‘43, finì in un campo di concentramento per essersi dichiarato fedele al Re. Per diverso tempo non ricevemmo sue notizie», racconta.
Le quattro lingue, Macchi, le impara nei 14 anni vissuti tra Argentina e Uruguay, dove rimane fino a 18 anni. Poi, un anno in Nuova Zelanda, dal padre allora Ambasciatore, a perfezionare l’inglese. Quindi, la laurea in giurisprudenza a Roma con 110 e lode e la partecipazione ai corsi di diritto comparato, gestiti dal professor Gorla. «In quel contesto conobbi Bisconti». Dopo il master nel Michigan, Macchi arriva a Milano nel 1965 ed entra nel team del nuovo ufficio milanese di Bisconti. «Eravamo due, tre persone in corso Europa 22». Erano gli anni caldi degli scontri e delle contestazioni. «Sotto lo studio si scontravano da una parte i “sanbabilini”, dall’altra i contestatori che arrivavano da via Festa del Perdono. Oltretutto, venivo dal Michigan, a 20 chilometri da Detroit, dove di fatto la contestazione è iniziata». Ma erano anche gli anni di Italia-Germania 4-3: «l’abbiamo vista in studio e siamo scesi a festeggiare per le vie di Roma. All’una di notte, però, siamo rientrati in studio a lavorare». Non senza contrattempi. «Eravamo euforici, uno di noi doveva preparare un plico di documenti e la cravatta rimase incastrata tra i fogli pinzati. Fummo costretti a tagliargliela». D’altra parte, in quegli anni, gli avvocati vivevano giorno e notte dentro lo studio, sette giorni su sette e con i ritmi serrati imposti da Bisconti. «Il sabato si lavorava sempre e spesso anche la domenica mattina. A differenza di oggi, però, quando si andava in vacanza si staccava completamente perché non esistevano gli strumenti per restare sempre connessi al lavoro».

Dopo aver trascorso dieci anni a Roma, nel 1980 Macchi si trasferisce a New York per gestire la nuova sede aperta da Bisconti. Sarà in quegli anni che maturerà l’addio a Geppi. «Sono entrato in contatto con gli studi americani più importanti e ho capito le diversità rispetto al modello italiano di allora. Gli studi anglosassoni avevano una gestione, una organizzazione, un posizionamento completamente diverso rispetto agli studi associati italiani, che erano associati solo di nome. Penso ai vari Chiomenti, Graziadei, Carnelutti, gestiti allora da luminari del diritto con ottimi rapporti con il settore pubblico e privato. Il modello era però quello del grande capo con soci che poi di fatto non lo erano. Tornai in Italia dagli Stati Uniti e fondai con Gangemi il nostro attuale studio. Per prima cosa facemmo lo statuto, perché in Bisconti erano anni che lo chiedevo senza successo». Sì, perché Geppi non ammetteva discussioni: chi e come gestiva i clienti lo decideva lui. Ma con i collaboratori che si era scelto non poteva durare a lungo: nel giro di due anni, dopo Macchi e Gangemi, fanno le valigie anche Rinaldi e Montanari prima, Gianni, Origoni e Tonucci poi. È la fine dello studio Bisconti, che piangerà in particolare l’addio di Gianni. «Era molto più che un nipote per lui, perché figlio della sorella gemella». Fu proprio questo il motivo per cui non si consumò il matrimonio tra Macchi e Gangemi e Gianni e Origoni. «Gianni non voleva lasciare lo zio senza fare un ulteriore tentativo per arrivare alla stesura di un accordo associativo, così se ne andò due anni dopo». Troppo tardi. «Quando con Gangemi abbiamo lanciato il nostro studio abbiamo deciso di aprire a Roma e di fare un accordo con Egidio Rinaldi per la sede di Milano. Noi però crescevamo in maniera diversa e nel 1992, dopo sei anni, abbiamo concluso la partnership con Rinaldi e Montanari e aperto una nostra sede a Milano, in via Serbelloni. A quel punto era troppo tardi per unirsi con Gianni». Resta l’amicizia, che contraddistingue quasi tutti gli avvocati di quel team. «Tutti coloro che sono passati dallo studio Bisconti sono rimasti molto uniti. Negli studi più antichi c’è questo senso di amicizia e colleganza».

Quando nasce Macchi di Cellere Gangemi è il 1986 e di fatto segna l’avvio della seconda generazione degli studi legali associati, una via di mezzo tra le law firm anglosassoni e i vecchi studi “padronali”. «Venivamo dall’esperienza di aver lavorato per un comandante e capivamo il disappunto che provano coloro che vengono definiti soci solo sulla carta. Le nostre organizzazioni per certi versi hanno recepito molto dagli studi angloamericani, ma conservando al tempo stesso il tratto tipico italiano. Abbiamo stabilito delle regole, aspetto fondamentale soprattutto oggi che siamo sette uffici per un unico studio, per evitare che diventino sette studi che vanno per contro proprio». Lo studio, negli anni ’90, resiste alle sirene inglesi. «Clifford Chance è stato il primo a sbarcare in Italia, seguito prontamente da altre “multinazionali dei servizi legali” che l’amico Carmelo Alessio, tra il serio ed il faceto, chiamava “le Rinascenti del diritto”. Ci proposero degli accordi, dicendo che ci avrebbero aiutato sotto tutta una serie di profili, ma non accettammo. Dicevano che avrebbero pensato a tutto loro e che noi ci saremmo dovuti occupare solo di svolgere la professione. L’idea non mi piacque». La filosofia, in effetti, è troppo diversa: gli inglesi, per esempio, prevedono il “retirement” obbligatorio dell’avvocato una volta raggiunti i 60/70 anni. Al contrario, come dichiarò Vittorio Grimaldi a un giornalista inglese quando si staccò da Clifford Chance raggiunta l’età del “retirement”, «British lawyers retire, Italians die at their desk».

Oggi, Macchi di Cellere Gangemi conta sette uffici con oltre 100 avvocati, praticamente un’azienda da gestire con il problema del ricambio generazionale da affrontare. «Siamo uno studio coeso. L’obiettivo che ci siamo dati con Gangemi nel 1986 è stato: “work in peace”. In questo modo è più facile affrontare il ricambio generazionale perché diventa un passaggio graduale che richiede anche, da parte di noi fondatori, la capacità di trasferire le conoscenze ai più giovani, i quali dal canto loro devono assumersi le dovute responsabilità». Tradotto: devono guadagnarsi le stellette e dimostrare di essere in grado di gestire i clienti. «Quando realizzo che un cliente sempre di più telefona direttamente a un mio collaboratore vuol dire che sto avendo successo nel trasferire rapporti e conoscenze alla nuova generazione». Una filosofia che, se Bisconti avesse fatto propria, quel team di avvocati forse non si sarebbe sciolto. Cambiando, con tutta probabilità, la storia e le gerarchie del mercato legale. Restano però i ricordi di quegli anni, la Bentley, il finto autista, la Cinquecento color corallo «di mia moglie» parcheggiata in via Veneto, la folla di turisti: il film di una vita.

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