Smart working, da eccezione a normalità

Adeguare la normativa attuale alla nuova visione del lavoro, dove la flessibilità diventa normalità e dove l’obbligo dei “mezzi”, tipico della tradizionale subordinazione, viene scardinato in favore del “risultato”.

Adeguare la normativa attuale alla nuova visione del lavoro, dove la flessibilità diventa normalità e dove l’obbligo dei “mezzi”, tipico della tradizionale subordinazione, viene scardinato in favore del “risultato”. È questa, secondo Carlo Fossati, senior partner dello Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati, una delle priorità nel post pandemia, seguita da un approccio più creativo del consulente.

Quali sono gli effetti della fine dell’emergenza sanitaria sul mercato del lavoro?
Il mercato del lavoro è cambiato, probabilmente in modo più profondo e radicale di quanto non si immagini comunemente.
Per quanto in Italia il fenomeno sia meno visibile che altrove (penso, prima di tutto, agli Stati Uniti e alla cd. “Great Resignation”), quel che è successo è, a mio avviso, un cambiamento di prospettiva destinato a diventare strutturale e che può essere sintetizzato in due fondamentali aspetti: 1) la nuova consapevolezza del prestatore di lavoro in merito alle infinite possibilità offerte dalla tecnologia, con particolare riguardo alla possibilità di svolgere la propria attività da luoghi anche molto distanti, geograficamente, dall’azienda, con la conseguente insofferenza verso forme di occupazione che impongano troppi vincoli riguardo al commuting e/o alla necessaria contiguità fisica tra la propria abitazione e la sede dell’azienda; i dipendenti hanno “assaggiato” una dimensione diversa del lavoro e hanno visto che si può vivere meglio (in termini di work/life balance) e con meno denaro (perché la vita lontano dai grandi centri urbani costa meno e perché i costi del commuting possono essere contenuti o eliminati) senza che questo impatti sulla loro produttività.
Di conseguenza, non accettano più vincoli che considerano “antiquati” e irragionevoli; 2) come corollario della consapevolezza di cui sopra, i dipendenti, specie, ovviamente, quelli che sono portatori di professionalità ricercate, sono pronti a offrirsi a un mercato del lavoro globale, senza preoccuparsi più della collocazione geografica del potenziale datore di lavoro.
Al tempo stesso, forse per la prima volta nella storia post-rivoluzione industriale, sono anche pronti a rinunciare all’attuale lavoro senza avere certezze di un’alternativa immediata.
Vi sono, poi, le situazioni patologiche, che sono anche numerose e andranno gestite: molti, infatti, sono i dipendenti che, a causa del prolungato smart working in condizioni abitative spesso inadeguate, hanno sofferto in modo rilevante sia la mancanza della dimensione sociale del lavoro, sia la sostanziale inesistenza di un confine preciso tra tempo di lavoro e tempo libero, con conseguenze disastrose sul loro equilibrio psico-fisico.

Quali le questioni normative ancora in sospeso?
La prima è senz’altro quella della necessaria riforma dello smart working. La normativa attuale, per quanto anagraficamente “giovane”, è stata concepita in un mondo in cui questo strumento era destinato a costituire un’eccezione, utilizzabile solo in casi limitati e per periodi di tempo ridotti. La pandemia, come sappiamo, ha stravolto questo paradigma consegnandoci un mondo del lavoro in cui lo smart working appare destinato a diventare la normalità, almeno nella forma dello smart working “ibrido”, cioè concesso per alcuni giorni alla settimana.
Ne è derivato un invecchiamento rapido della normativa del 2017, che oggi appare per buona parte inadeguata a gestire il fenomeno nella sua attuale dimensione. La legge dovrà necessariamente tener conto di questo.
Vi è, poi, in termini, più “alti”, il problema della crisi, a mio avviso irreversibile, del tradizionale paradigma della subordinazione, concepita nel nostro ordinamento (secondo una logica vecchia ormai di quasi un secolo) come “obbligazione di mezzi” contrapposta all’obbligazione “di risultato” tipica del lavoro autonomo.
Questa contrapposizione che, in qualche modo, ha “retto” per decenni attraverso importanti cambiamenti del tessuto socio-economico appare oggi gravemente in crisi, soprattutto in conseguenza della necessità, tipica dello smart working, di poter “misurare” la prestazione del dipendente non più in termini di tempo quanto, piuttosto, dal lato del risultato.
Occorrerà, quindi, ripensare l’art. 2094 c.c. e, di conseguenza, tutto il tradizionale impianto di tutele che era concepito per un tipo di azienda (quella manifatturiera di grandi dimensioni) che oggi costituisce, in Italia, l’eccezione.

Quali gli scenari futuri del mercato del lavoro e le attuali criticità per imprese e lavoratori?
Dal lato delle imprese, si pongono tre problemi: modificare la propria offerta di lavoro in modo da renderla appealing per una nuova generazione di lavoratori che valorizza aspetti diversi dalla semplice entità della retribuzione come decisivi per la scelta dell’occupazione; laddove ciò sia ritenuto necessario, trovare il modo per incentivare il rientro, almeno parziale, in ufficio di persone che hanno lavorato da remoto per anni e che dovranno tornare ad accettare i disagi del commuting; gestire gli esuberi che si sono accumulati in oltre due anni di regime emergenziale che ha vietato licenziare.
Per quanto riguarda la mia esperienza professionale, ho constatato che la concessione a oltranza di ammortizzatori sociali ha cambiato l’approccio delle organizzazioni sindacali rispetto alla gestione delle procedure di licenziamento, specie collettivo, nella quali spesso le aziende si trovano di fronte a posizioni “politiche” di totale chiusura rispetto alla stipula di accordi, anche economicamente molto vantaggiosi per i dipendenti, laddove il datore di lavoro rifiuti a sua volta di fare ricorso agli ammortizzatori sociali.

Quale il ruolo del consulente in questo scenario economico di grande incertezza?
Si tratta, prima di tutto, di essere sempre più aperti al cambiamento, flessibili e propositivi.
Non basta più conoscere il contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento per dare il consiglio giusto: ci vogliono, prima di tutto, sensibilità e consapevolezza del cambiamento socio-economico in atto e creatività nelle soluzioni, che possono discostarsi anche in modo significativo da quelle tradizionali.

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