I rapporti lavorativi sono cambiati notevolmente negli ultimi anni. Complici il whistleblowing e la rivoluzione digitale. Quest’ultima ha favorito forme più fl essibili di prestazione lavorativa e un ruolo di primo piano dei social media.
Olimpio Stucchi, socio fondatore di Uniolex Stucchi & Partners, ha spiegato a Le Fonti Legal le applicazioni nazionali ed europee del whistleblowing, il posizionamento dei nuovi “gig workers”, le potenzialità del lavoro ad orario autogestito e il ruolo dei social media.
Legge sul whistleblowing: quali sono le applicazioni interne e i futuri scenari nell’ Ue?
In Italia, è stato scelto di fare una applicazione limitata dell’istituto, poichè la legge 197 lo ha inserito nel quadro dei modelli organizzativi di impresa. Questa scelta legislativa ha due conseguenze: la prima è che l’istituto si applica solo nelle aziende che hanno i modelli 231, e la seconda, proprio perché strettamente incardinato a questi modelli, è che si applica solo in relazione a denunce e segnalazione di illeciti collegati ai “reati target” previsti nei modelli 231. Sul piano concreto, inoltre, è stato previsto che le denunce abbiano carattere riservato, ma non siano consentiti i cosiddetti “anonimi”. Questo per evitare che, qualora la segnalazione risultasse infondata, il segnalante non ne esca indenne. Il modello prescelto è tuttavia migliorabile dal punto di vista delle tutele per il soggetto denunziato, per il quale nulla si prevede in termini di garanzie procedimentali. Tuttavia, l’esperienza ha portato ad applicare al denunciato le forme di difesa previste nell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori. Spostando la riflessione sul piano europeo, è in cantiere una proposta di direttiva europea avente per oggetto illeciti di tipo “comunitario”, ovvero attinenti alla violazione di norme comunitarie su materie diverse (appalti, concorrenza, fisco…), poiché dei 28 paesi membri, solo 10 hanno una norma- tiva in materia di whistleblowing. La proposta è quella di prevedere questa tipologia di istituto per una platea di aziende molto ampia, ovvero per tutte le aziende private con più di 50 dipendenti ed un fatturato maggiore di 10 milioni di euro, così come per tutte quelle pubbliche. Facendo un parallelo con la normativa nazionale, notiamo che le materie sono molte di più rispetto all’Italia, così come sono più numerose le imprese coinvolte. Altro tema significativo riguarda i canali di segnalazione: oggi la norma italiana prevede che la segnalazione venga fatta ad organi delle società o collegati ad essa e, nel caso di aziende con un modello 231, all’Organismo di vigilanza (Odv). Nel caso della proposta di direttiva europea la se-gnalazione cadrebbe in momenti diversi rispetto a tre livelli diversi: nel primo livello, al management della società coinvolta; nel secondo, qualora non vi siano conseguenze di presa in carico della situazione, la segnalazione verrebbe fatta alle autorità pubbliche; nel terzo livello, alla stampa e ai media. In quest’ultimo caso siamo molto lontani dall’e-sperienza italiana.
La sentenza Foodora fa riflettere sullo status dei nuovi “gig workers”. Quali sono le loro difficoltà e quali le soluzioni per superarle?
La sentenza Foodora, che ha riget-tato la richiesta dei riders di essere considerati lavoratori subordinati, ha portato a rifl ettere sull’applica- bilità ai gig workers delle vecchie categorie del diritto del lavoro. Ritengo che le argomentazioni della sentenza siano condivisibili, perché un certo tipo di schema operativo non si adegua al modello normativo del lavoro subordinato. Ciò non significa che il problema concreto sia stato risolto. La tendenza, infatti, è quella di andare sempre di più verso forme di lavoro che appartengono alla gig economy, dove le piattaforme di lavoro si consolidano e si stanno espandendo in diversi settori. La domanda è: cosa accadrà ai lavoratori che si trovano ad operare con queste piattaforme? Gig economy sarà una sorta di economia dei lavoretti, di lavoro occasionale oppure, dato che le piattaforme avranno una struttura stabile, dobbiamo pensare di introdurre delle tutele e quindi ragionare in termini di job on demand? Sono della opinione che si debba pensare al secondo tipo di prospettiva e si dovrà perciò valorizzare il recente esempio di Deliveroo, che ha riconosciuto ai suoi operatori forme di garanzia assicurativa per infortuni e danni a terzi, perché questo è il futuro della gig economy.
È d’accordo con la sperimentazione dell’orario flessibile autogestito?
Sì, sono d’accordo, perché si tratta di un esperimento che va nella direzione del lavoro nel futuro. E’ recente l’accordo di secondo livello fra una società del bolognese ed i propri sindacati interni con i territoriali, che ha previsto la possibilità per i dipendenti dal settimo livello in su (dirigenti e impiegati con funzioni direttive) di autogestirsi l’orario di lavoro e per i lavoratori dal 6 livello in giù (impiegati e operai), di gestire in modo flessibile e autodeterminato il proprio orario di lavoro in una fascia oraria 7 – 19 per quel che riguarda le 8 ore lavorative, con una pausa di 45 minuti. Ovviamente ciò è possibile se i lavoratori non devono lavorare in squadra o a catena, altrimenti, nel rispetto di tutti, non è possibile applicare questa forma di autogestione. La tipicità aziendale è dunque fondamentale. Perché tale forma va verso il lavoro 4.0? Perché stiamo parlando di dipendenti con contenuti tecnologici, che, accettando la sfida di queste forme di orario, di conseguenza si sono fatti carico di un principio di autoresponsabilità e di responsabilità sui risultati. Qui si inizia ad andare oltre il concetto di lavoro subordinato o “lavoro ad orario fisso”, perchè è lo stesso dipendente che lo decide, assumendosi anche l’obbligo di realizzare nell’orario prescelto la sua prestazione di lavoro nell’ambito della più ampia struttura aziendale. In questo schema si inizia a superare l’idea del lavoro subordinato eterogestito dove il datore dice come, dove e quando lavorare. Egli concentra il suo interesse sul risultato, ottenibile con un lavoro di autogestione, autoresponsabilità e compartecipazione verso un obiettivo comune.
Quali sono e saranno gli impatti dei social media nei rapporti di lavoro?
I social media oggi hanno una gran- de rilevanza in ambito aziendale e nella gestione dei rapporti di lavoro, in tutte le sue fasi. Durante la ricerca del lavoro, i social sono strumenti potentissimi sia dal punto di vista dei lavoratori che cercano occupazione, sia per la ricerca di lavoratori da parte delle aziende o degli headhunters, i quali usano linkedin come se fosse una grande bacheca di ricerca. Una volta instaurato il rapporto di lavoro, i social media trovano ampio spazio nelle policies aziendali che regolamentano la materia e l’uso sul luogo e nell’orario di lavoro, come pure hanno di recente trovato applicazione in fase di svolgimento del rapporto quale strumento rapido di comunicazione interna (whatsapp è diventato uno strumento diffuso, quando per esempio si comunicano cambi turno o assenze per malattia) e anche esterna (per scopi di marketing o pubblicità). La questione più complessa rimane però legata all’uso personale dei social durante lo svolgimento del lavoro: l’abuso dei social media nell’orario lavorativo può essere causa di licenziamento. Così come può essere causa di licenziamento il caso diffamazione tramite messaggi postati contro l’azienda su profili social fuori dall’orario di lavoro. Di queste fattispecie c’è una casistica ampia. La Corte di Cassazione si è di recente espressa sulla legittimità del licenziamento di un sindacalista che su un blog aveva pubblicato due articoli sui piani di welfare aziendale dal contenuto falso, descritti in modo non veritiero e negativo per l’azienda. Altro tema interessante rispetto all’incidenza dei social media rispetto ai rapporti di lavoro è il suo utilizzo per le comunicazioni di cessazione del rapporto. La giurisprudenza ha convalidato il licenziamento comunicato via whatsapp: il primo caso così deciso risale al giugno 2017 presso il Tribunale di Catania ed il più recente è della Corte d’Appello di Roma di fine aprile 2018.