Il giuslavorista Salvatore Trifirò racconta l’evoluzione della professione dagli anni delle contestazioni, in cui è scampato a due attentati delle Brigate Rosse, fino ai giorni nostri.
È l’inizio degli anni Cinquanta, un ragazzo siciliano di 22 anni, neolaureato in giurisprudenza a Palermo, arriva a Milano per cercare lavoro. Una valigia «carica di perplessità» in una mano, e qualità fuori dal comune. All’esame da procuratore legale, è primo su tre mila concorrenti. È solo questione di tempo e arriva la chiamata del migliore avvocato in circolazione: Cesare Grassetti, uno dei più eminenti giuristi del Novecento, con l’offerta che cambia la vita. Comincia così la carriera di Salvatore Trifirò, classe 1932, uno dei maggiori giuslavoristi italiani che ha dato un contributo decisivo alla creazione del diritto del lavoro vivente. Oggi, a quasi 87 anni, Trifirò lavora «14 ore al giorno» e ha appena fatto un’operazione agli occhi che gli permette ancora di «guardare lontano»: «non è nel mio Dna fermarmi sulla riva del fiume a osservare l’acqua che scorre. Bisogna sempre aver nuovi progetti e guardare al futuro».
Scampato a due attentati delle Brigate Rosse, Trifirò inizia a occuparsi di diritto del lavoro quando nessuno vuole farlo: sono gli anni di piombo, delle contestazioni e del terrorismo, e le cause si moltiplicano per via dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori. Gli avvocati che difendono le aziende finiscono nel mirino. «Ci riunimmo in studio per definire chi dovesse trattare i fascicoli di lavoro accumulati e tutti si rifiutarono perché era estremamente pericoloso. Così mi offrii volontario». Per prima cosa, Trifirò chiama in causa i sindacati chiedendo il risarcimento danni per le aziende dovuti agli scioperi selvaggi. «Questa attività mi assorbì in modo totalizzante e divenni oggetto di attacco da parte dei gruppi che rappresentavano i lavoratori». Porta Vittoria, a Milano, viene tappezzata di manifesti: Trifirò è indicato come l’avvocato di Confindustria, “Yachtman da strapazzo”, responsabile delle sconfitte dei lavoratori. «Un pomeriggio venni chiamato in Questura dal capo della Digos, mi disse di restare in casa l’indomani e mi chiese alcune informazioni circa le persone presenti alle udienze alle quali partecipavo. Mi mostrò una piantina del mio studio che mi disse essere stata redatta dal capo di Prima Linea Walter Alasia, e alcuni ricorsi che io promuovevo nei confronti dei Cub (Comitati Unitari di Base, ndr) che avevano rinvenuto in un covo delle BR vicino a Mediglia, in occasione dell’arresto di un brigatista. Mi raccomandò ancora una volta di non uscire di casa l’indomani e mi disse di rivolgermi al Maresciallo Bazzega, se avessi avuto bisogno di aiuto nei giorni successivi. Il giorno successivo in effetti restai in casa con gli scuri delle finestre chiuse, quando all’improvviso la televisione interruppe la trasmissione per annunciare che in un conflitto a fuoco alle porte di Milano era stato ucciso Walter Alasia e che nel conflitto era stato colpito a morte anche il Maresciallo Bazzega. Rimasi sconvolto». Nel giro di un mese, il duplice tentativo di attentato. «Una sera, in un ristorante a Brera, due persone chiesero di parlare con me. Avendo intuito che si trattava di brigatisti non andai, passai dalla cucina, salii in macchina e riuscii ad andare via. Dopo qualche settimana un gruppo di tre brigatisti mi aspettò all’uscita del locale per farmi fuori senonché, mentre ero sulla soglia passò una guardia giurata e tanto bastò per fermare gli attentatori. Di questo secondo tentativo di attentato, lo seppi solo quando venne approvata la legge sui pentiti. Mi chiamò il Procuratore e mi disse che due dei brigatisti che avevano ucciso il Giudice Emilio Alessandrini si erano dichiarati pentiti e che, collaborando con i magistrati, stavano confessando di avere attentato alla mia persona». In quegli anni, Trifirò si stacca fisicamente dallo studio Grassetti per non mettere in pericolo i colleghi e si sposta in un ufficio a fianco, pur nello stesso stabile. Viene invitato dal locatore a lasciare lo stabile perché temeva conseguenze da parte dei brigatisti. «Quelli furono anni tremendi. Ricordo di cinque brigatisti dipendenti della Magneti Marelli che si erano assentati dal lavoro per esercitazioni di tiro a Verbania. Fecero causa all’azienda e vennero reintegrati. Proposi appello e il giorno del dibattimento la Digos previde, come in effetti accadde, migliaia di persone in Tribunale, e parte in aula dove si discuteva la causa. Appena mi alzai per parlare la folla si riversò oltre le transenne, fui costretto a scappare insieme ai giudici di appello e mi rifugiarmi in camera di consiglio. Nel frattempo dentro il Palazzo di giustizia ebbe luogo una vera e propria guerriglia tra la Celere intervenuta e i manifestanti. La situazione di terrore durò fino a quando il generale Dalla Chiesa non riuscì a debellare i brigatisti».
Ma Trifirò non è solo diritto del lavoro. Anzi, i primi atti da esaminare, da Grassetti, sono di concorrenza sleale. L’obiettivo, all’inizio, è conquistare la fiducia del giurista e superare il periodo di prova: con l’ingegno ma anche un po’ di fortuna. «Avevo un buon background culturale ma non mi ero mai cimentato in una causa di concorrenza sleale. La prima volta che mi trovai di fronte a questi atti, preparai la comparsa per un mese intero. Non sapevo come fare e, dato che era una causa in appello, copiai tutto l’atto di primo grado aggiungendo solo una nuova domanda. La segretaria mi convocò per le tre del pomeriggio e le diedi la comparsa, che all’epoca si scriveva con la copiativa sul retro delle tesi. Poi non mi chiamò più, fino a quando, due giorni prima della scadenza, Grassetti mi fece convocare. Sulla scrivania aveva l’atto e il fascicolo: col dito controllò pagina per pagina, riga per riga, e se mancava una virgola la aggiungeva. Mi disse infine: bravo, lei è un ragazzo intelligente, ha capito che non c’era nulla da cambiare perché ero stato io l’estensore di quegli atti. Era il 1957, e così cominciò la mia storia nello studio Grassetti». Tra le maggiori cause, Trifirò segue il fallimento del Cotonificio Vallesusa nel campo del diritto commerciale, le vicende della birra Braün nel campo della concorrenza sleale, nel campo del diritto successorio le vicende dei Riva e dei Marinotti, dei Ceschina e tanti altri. Da ultimo, nel campo della concorrenza sleale, la causa di Emilio Isgrò nei confronti di Roger Waters per plagio, oltre importanti arbitrati tutt’ora in corso.
Alla morte di Grassetti, nel 1989, Trifirò decide di mettersi in proprio, portando con sé la stessa valigia «carica di perplessità», ma forte degli insegnamenti del suo mentore. «Grassetti non era un uomo che faceva grandi discorsi, ma sapeva essere efficace nei confronti dei giudici scrivendo memorie di non più di otto-dieci pagine, con periodi brevi: soggetto, predicato, complemento. Sto collaborando alla realizzazione di un libro che uscirà in suo nome. Era un personaggio che raccoglieva tutte quelle qualità che ho cercato di assorbire: ha partecipato all’attività codicistica, collaborando alla scrittura del codice civile del 1942, è stato professore e avvocato scrivendo un libro fondamentale sull’interpretazione del negozio giuridico che è diventato la guida di tutti gli avvocati». Lo studio nel 1986 è stato da lui rifondato con i suoi più stretti collaboratori, diventando Trifirò & Partners Avvocati, composto da 80 professionisti suddivisi in vari dipartimenti: dal societario al commerciale, alla successione, alla famiglia, agli arbitrati, e resta tra i maggiori studi nel campo del diritto del lavoro. «La professione è stata da me intesa come una missione. Nella gestione delle vicende stragiudiziali e giudiziali la stella polare continua e deve essere sempre la ricerca di una sintesi e di un equilibrio. L’avvocato deve sì combattere nelle cause ma, allo stesso tempo, ricercare un punto di equilibrio che eviti spese al cliente, che lo porti rapidamente alla soluzione delle liti attraverso un accordo. Per farlo, bisogna conoscere la propria forza, e saper ascoltare l’altra parte. Per questo, nel campo del diritto del lavoro, ho fatto più conciliazioni, anche se ho ottenuto sentenze importanti su questioni di principio. Alcune volte ho contrastato l’imprenditore che voleva andare avanti nella causa a tutti i costi. E avevo ragione». Come in una causa della Falk, con sei mila lavoratori che chiedevano una retribuzione per lo straordinario durante il riposo domenicale: «io insistetti con la Falck per concludere una transazione anziché rischiare i parecchi miliardi chiesti dai lavoratori. Chiusi la vicenda con l’esborso di circa un miliardo. Dopo due anni ci fu un’altra causa e la Falck si rivolse ad un altro avvocato che li incitò ad andare avanti nel giudizio: la conclusione fu che la Falck pagò circa cinque miliardi oltre le spese legali».
Il dibattito, in questi mesi, è aperto sulla stabilità del lavoro, cui il decreto Dignità intende puntare, e la flessibilità che richiedono le imprese. «Sono un assertore del lavoro autonomo rispetto a quello subordinato. Alla luce delle ultime novità normative in tema di lavoro, ritengo comunque che il problema del precariato non si possa risolvere per decreto. Gli imprenditori devono saper coniugare la flessibilità aziendale alla motivazione del lavoratore». Oggi, poi, la professione è cambiata, l’intelligenza artificiale si fa strada con i Robot, entrando nelle imprese e perfino nei meccanismi lavorativi degli studi legali. «La presenza dell’uomo però sarà sempre indispensabile. Si arriverà al punto in cui le macchine lavoreranno per noi, e dovremo essere in grado di trarne vantaggio per raggiungere una situazione di vita migliore per tutti». L’importante, insomma, è non fermarsi a osservare il fiume che scorre, «ma guardare al futuro con nuovi progetti». A quando, tra 100 anni, gli ingranaggi dell’orologio «appena riparato» si fermeranno: «allora l’orologiaio mi richiamerà, e sono sicuro che sarà un mondo più felice di questo, in cui si potrà comprare un orologio ancora migliore».
A cura di Gabriele Ventura