Imprese a caccia di flessibilità

Secondo le cifre diffuse dall’Istat, a marzo il tasso di disoccupazione è sceso al 10,2%, rispetto al 10,5% di febbraio, mentre l’occupazione è cresciuta sul mese precedente di 60mila unità. Dati che fanno ben sperare, ma che, se paragonati a quelli della media europea, rendono l’occupazione un problema da non sottovalutare.

Gli esiti del decreto dignità, emanato l’estate scorsa dal governo gialloverde per risollevare le sorti di oltre 2 milioni di persone in cerca di lavoro, restano incerti: il provvedimento, infatti, date le restrizioni poste ai contratti a tempo determinato e in somministrazione, ha causato una drastica riduzione del loro utilizzo da parte delle aziende, oltre ad aver aumentato le controversie relative all’impugnazione dei licenziamenti. . L’unico strumento capace di smussare le rigidità del decreto si è rivelato, seppur con dei limiti, la contrattazione di secondo livello, o meglio, la contrattazione di prossimità. Ben diversa è la situazione relativa alle politiche di welfare aziendale e agli strumenti di conciliazione vita-lavoro, che negli ultimi anni hanno visto un boom di diffusione tra le imprese, con ottimi risultati in termini di produttività e soddisfazione dei lavoratori, oltre a una riduzione dei costi per i datori. È quanto afferma Olimpio Stucchi, managing partner di Uniolex Stucchi e Partners, che con Le Fonti Legal ha fatto il punto sul decreto dignità e sulle ultime novità in tema di welfare aziendale e smart working.

Qual è l’attuale panorama del mercato del lavoro in Italia?
Il mercato del lavoro sconta una congiuntura socio-economica non positiva. Nel corso del 2018 i dati relativi all’occupazione erano stati buoni, con circa 230 mila nuovi occupati. Da novembre 2018, invece, c’è stato un brusco ribasso che ha visto la cessazione di 680 mila contratti a tempo determinato e 280 mila contratti di somministrazione, a fronte di 228 mila rapporti a termine convertiti in tempo indeterminato. Nel febbraio 2019 la disoccupazione si è assestata al 10,7%, con circa 2 milioni e 300 mila persone inoccupate in cerca di lavoro. Questo dato appare ancora più preoccupante se si considera che la disoccupazione media nell’Unione Europea è al 6,5%. Per sopperire alla situazione emergenziale in cui ci troviamo, l’Italia avrebbe bisogno di una politica espansiva, fatta di incentivi a fare impresa e a creare nuovi posti di lavoro; al nostro Paese serve una sburocratizzazione, un alleggerimento normativo e l’estensione massiva della flat tax. Ritengo che le ultime misure adottate (decreto dignità, reddito di cittadinanza e quota100) non siano per nulla espansive e che non avvantaggino, come dovrebbero, le imprese.

Il decreto dignità ha dunque deluso le aspettative…
Sebbene il decreto dignità sia nato sotto i migliori auspici, i risultati non sono stati quelli sperati e l’impatto è stato pesante. Il provvedimento è intervenuto su quattro aree: contratti a tempo determinato, lavoro in somministrazione, indennità per licenziamento illegittimo nel contratto a tutele crescenti e delocalizzazione. Per quanto riguarda i primi due strumenti, l’esito del provvedimento è stato un crollo del loro utilizzo da parte delle aziende: da novembre a oggi sono cessati 960 mila contratti a tempo determinato e in somministrazione. Ciò è dovuto al fatto che le aziende, di fronte alle restrizioni imposte dal decreto nell’utilizzo di questi strumenti, hanno preferito non usarli, oppure usarli con nuove persone, cessando di fatto il rapporto con dipendenti inseriti in azienda e su cui erano stati fatti investimenti in formazione. Per quanto riguarda l’indennizzo, dopo il decreto dignità e la sentenza della Corte Costituzionale c’è stato un incremento dei contenziosi: solo a Milano è stato registrato un +5% nelle controversie di lavoro relative all’impugnazione dei licenziamenti. Questo è avvenuto perché impugnare i licenziamenti rispetto al contratto a tutele crescenti è diventato più conveniente, con indennità nettamente migliori. In questo modo è stato smantellato il jobs act, con il quale la predeterminazione del risarcimento da licenziamento illegittimo voleva consentire al datore di budgettare il rischio. Con il decreto dignità sono aumentati del 50%i i minimi e i massimi di indennizzo, oltre a venir meno la predeterminazione dell’ammontare risarcitorio legato all’anzianità (due mesi per ogni anno). L’unico aspetto positivo del decreto dignità è il fatto che abbia mantenuto la possibilità di ricorrere alla contrattazione collettiva per andare in deroga, rispetto ai contratti a termine e di somministrazione.

La contrattazione di secondo livello è l’unica soluzione alla rigidità del decreto?
La contrattazione di secondo livello è l’unica strada utile per ritornare a situazioni più gestibili e flessibili. Essa contiene però dei limiti di delega da parte del contratto collettivo nazionale: per ogni contratto collettivo nazionale viene stabilito quali sono le materie rispetto alle quali il livello territoriale aziendale può andare a creare norme diverse. Il secondo limite riferito alla contrattazione collettiva riguarda i problemi di efficacia soggettiva rispetto ai dipendenti delle aziende, nei casi in cui alcuni di essi non siano iscritti ai sindacati stipulanti la contrattazione o iscritti a sigle sindacali dissenzienti; in questi casi la contrattazione non si può applicare a meno che il lavoratore non lo voglia. L’ultimo limite riguarda la potenzialità di referendum, perché la contrattazione è soggetta a referendum da parte dei lavoratori. Come strumento di flessibilità ritengo più utile la contrattazione di prossimità. Essa, infatti, non è soggetta a referendum, ha un’efficacia generalizzata e può derogare il Ccnl e la legge. Anche questo tipo di contrattazione contiene dei limiti che riguardano le materie che si possono negoziare e su cui si possono concludere accordi e i relativi presupposti di utilizzo. Nei fatti, per molte materie e in linea generale, vengono utilizzati maggiormente gli accordi di prossimità, senza chiamarli come tali, mentre per derogare al decreto dignità si usa una normale contrattazione di secondo livello.

Come si sta orientando la disciplina giuslavorista in tema di welfare aziendale?
Dal 2015, anno della sua nascita, il welfare aziendale ha avuto un impatto positivo nelle aziende. Si parla infatti di quasi 18.000 accordi sindacali conclusi relativamente a questo strumento. I motivi del successo sono sostanzialmente tre: attribuisce ai dipendenti servizi inerenti la vita lavorativa e privata che di solito i lavoratori preferiscono rispetto ai premi in denaro; permette una totale detassazione e decontribuzione del beneficio che le aziende erogano ai dipendenti; le aziende possono portare il costo del servizio in deduzione da un punto di vista fiscale e bilancistico. Il welfare ha dato la possibilità al dipendente di godere di un ventaglio enorme di servizi: servizi alla persona, servizio di cost saving, accordi di collaborazione con banche e aziende, servizi medici ecc. Data la loro importanza, nel corso degli ultimi due anni, le politiche di welfare hanno subito dei miglioramenti: nel 2017 la legge di stabilità ha sancito che anche il premio di risultato, a determinate condizioni, può essere convertito in servizi di welfare; nel 2018 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil nello stipulare il c.d. “patto della fabbrica” hanno previsto di regolare la materia a mezzo di accordi interconfederali in modo che le imprese, per vedersi erogare i servizi di welfare, non debbano necessariamente sottoscrivere accordi sindacali aziendali. Infine, a inizio 2019, è stata stabilita la possibilità di utilizzare la cd. “pace contributiva”, ovvero destinare i premi di produzione per riscattare periodi non coperti da contribuzione.

Ritiene che lo smart working sia efficacie per migliorare la produttività e la gestione famiglia-lavoro?
Lo smart working è un tema di enorme attualità. Già in passato esistevano forme di flessibilità come il part time e il telelavoro, a cui è seguita una loro evoluzione nel 2015 con gli accordi aziendali sperimentali per la conciliazione vita/lavoro e nel 2017 con l’istituzione del lavoro agile. Lo smart working, inteso come lavoro a distanza, ha due limiti: quello temporale, perché in genere si lavora da remoto per uno o due giorni la settimana al massimo, e quello legato alla tipologia di prestazione, poiché in genere viene utilizzato da chi svolge mansioni d’ufficio e non di addetto alla produzione. Nell’ultimo anno c’è stata un’ampia diffusione dello strumento; secondo l’ultima ricerca dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano quasi mezzo milione di lavoratori è stato coinvolto in progetti di smart working e il 56% di grandi imprese ne hanno fatto ricorso con numerosi vantaggi. La possibilità di lavorare a distanza, infatti, ha comportato una riduzione delle presenze in ufficio, portando le imprese a scegliere spazi più ridotti e open space con postazioni prenotabili, risparmiando sui costi di gestione delle strutture. Dai dati pubblicati dal Politecnico, inoltre, emerge che l’utilizzo dello smart working ha prodotto un calo dell’assenteismo del 20% e un incremento della produttività per dipendente. La vera novità è che è cambiato il paradigma lavorativo, non più basato sulla coppia tempo-urgenza ma su un concetto di prestazione di lavoro focalizzata sugli obiettivi e sui risultati dove il lavoratore è auto-responsabile. Non mancano le criticità: una per tutte, i rischi collegati alla protezione dei dati; a questo si aggiungono, stando ai risultati del Politecnico, i problemi nella comunicazione a distanza, la possibilità di interferenze, un certo senso di isolamento ed una maggiore difficoltà nella gestione delle emergenze. La migliore soluzione è bilanciare le due possibilità: lavoro in ufficio e lavoro a distanza.

Come si pone l’Europa di fronte a questo strumento?
Anche in Europa è forte il bisogno di maggiore flessibilità lavorativa. Il 4 aprile scorso è stata votata una proposta di Direttiva europea, da recepire nel prossimo triennio, sul tema conciliazione vita-lavoro per i genitori. Il provvedimento darà diritto ai genitori con bambini fino a 8 anni di chiedere per ragioni di cura, non solo sanitaria, di accedere a misure di lavoro flessibile per luogo e orario. Secondo la direttiva l’azienda potrà negare questo diritto solo con una motivazione specifica. Inoltre saranno previsti congedi di paternità retribuiti fino a 10 giorni (contro gli attuali 5) e la possibilità di accedere a congedi parentali fino a 4 mesi e di farne un uso flessibile.

Quali sono state le maggiori problematiche su cui lo Studio ha lavorato nell’ultimo anno?
La questione su cui siamo stati chiamati a intervenire più frequentemente ha riguardato il superamento della rigidità del decreto dignità e l’ottenimento della flessibilità, soprattutto con il tramite di accordi sindacali. A ciò si sono aggiunti l’implementazione e la strutturazione di progetti di smart working, le problematiche legate a Gdpr, controlli a distanza e usi e abusi dei social network, oltre alla gestione di ristrutturazioni aziendali.

di Federica Chiezzi

 

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