Dalla boutique alla boutique, nel segno dell’eccellenza. Sono trascorsi 35 anni dalla prima esperienza professionale di Angelo Zambelli presso lo studio di Umberto Silvio Toffoletto, “per tutti UST”, all’epoca tra gli avvocati più rinomati nel diritto del lavoro. Proprio in quei 12 anni intensi e formativi è maturato il sogno mai sopito di mettersi in proprio, sperimentato sì un paio di altre volte, ma in tutt’altro contesto e modalità, e che si è realizzato concretamente solo il 14 febbraio scorso, quasi fosse un atto d’amore nei confronti di una professione che è da sempre la sua vita. Con i suoi fedeli compagni d’avventura, Barbara Grasselli e Alberto Testi, Zambelli ha infatti lasciato lo studio legale Grimaldi per aprire la propria boutique, Zambelli & Partners. Per comprenderne la ragione, ma soprattutto la filosofia di fondo e gli obiettivi, Le Fonti Legal lo ha intervistato ripercorrendo con lui le principali tappe professionali.
Avvocato, partiamo dagli esordi in Toffoletto.
Noi avvocati della vecchia guardia abbiamo iniziato la professione con un’idea che le nuove generazioni non hanno più: aprire uno studio legale e vedere scritto il proprio nome sulla targa d’ottone. Un desiderio che è nato quando ho iniziato questo mestiere, 35 anni fa, nello studio dell’avvocato Toffoletto, che aveva scritto sulla carta intestata per l’appunto “Studio dell’Avvocato Umberto S. Toffoletto”. Erano botteghe artigianali, costituite dal dominus e da qualche collaboratore.
Ho studiato Giurisprudenza con il chiodo fisso di fare l’avvocato. Un mese prima di laurearmi già lavoravo in quello Studio che sceglieva tra i migliori studenti dell’Istituto di Diritto del Lavoro dell’Università Statale di Milano: eravamo tutti assistenti universitari. Oggi, con l’esperienza accumulata, sto affrontando una nuova avventura, anzi, oserei dire l’Avventura, con la A maiuscola, insieme con i miei due soci Barbara Grasselli e Alberto Testi, che lavorano con me da oltre 25 anni, con i quali condivido quella matrice comune di valori e obiettivi maturata nei miei primi anni di carriera.
Dalla boutique specializzata allo studio multipractice, agli USA. Ci racconti questo salto.
Una volta deciso di uscire da Toffoletto, il primo passo non poteva che essere un’altra boutique, ma dopo solo un anno Carnelutti ci ha chiesto di fonderci perché privo di un dipartimento di diritto del lavoro. Un invito stimolante per un carattere curioso come il mio, perché si sarebbe trattata della mia prima esperienza in uno studio multipractice, per giunta tra i più conosciuti in Italia e nel mondo. Così ho accettato e mi sono ritrovato di colpo a confrontarmi con anime, professionalmente parlando, diversissime dalla mia. Un nuovo approccio che non ha solo arricchito me e i miei collaboratori, ma ci ha fatto realizzare, dopo 12 anni da Toffoletto, che si poteva fare l’avvocato con modelli professionali completamente diversi. L’esperienza che stavamo vivendo era uno dei primi esempi di “legal building” di Milano. Correva l’anno 1999: un salto decisamente importante.
Ma era solo l’inizio: nel 2003 la fusione di Carnelutti con lo studio McDermott Will & Emery ci ha immerso nella realtà legale americana, lontanissima dai nostri standard professionali. Questa prima esperienza a stelle e strisce ci ha ampliato gli orizzonti: abbiamo toccato con mano la gestione di una “law firm” con oltre mille avvocati, con fatturati miliardari, ma soprattutto capito l’importanza della governance e del controllo di gestione. Abbiamo però anche preso coscienza che gli avvocati italiani non hanno nulla da invidiare tecnicamente a quelli d’oltreoceano, se non, cosa peraltro di non poco conto, la loro capacità organizzativa, il saper fare squadra e rispettare le regole associative.
Poi, la creazione di LabLaw. Come nacque l’idea?
La decisione di Carnelutti di sciogliersi da McDermott, con la conseguente strategia di ritornare a una matrice italiana multipractice, non mi ha però trovato d’accordo. Da qui l’idea di creare finalmente la mia boutique. Luca Failla e Francesco Rotondi, venuti a conoscenza del mio progetto, mi hanno subito chiesto di venire a bordo. La carta vincente e innovativa è stata la mia decisione di dare per la prima volta un nome di fantasia a uno studio che mi sono divertito a inventare: LabLaw. Era l’agosto 2005 e sono ancora orgoglioso di quella scelta, perché fu un’intuizione che poi molti altri studi avrebbero copiato. Il mercato ha salutato con entusiasmo questa innovazione anche solo nel brand, ed è stato un percorso che si avviava a diventare interessante. Nel 2009, però, l’allettante corteggiamento di Bruno Gattai e l’opportunità di promuovere Barbara e Alberto allo status di socio, mi ha fatto intraprendere una nuova avventura nello studio Dewey & LeBoeuf e tornare a essere equity partner di una US Firm, questa volta di Manhattan, con un progetto molto ambizioso in ogni suo dipartimento. Avevo 46 anni e sembrava un’ottima opportunità per capire che cosa stesse accadendo nei servizi legali a livello globale.
Come avvenne la dissoluzione di Dewey & LeBoeuf?
Inaspettatamente, nel 2012, tra gennaio e maggio, una storia di successo che durava da oltre cent’anni, iniziata nel 1909, arrivava al capolinea. Una tempesta perfetta, fatta di un mix micidiale di finanza creativa, crisi globale dei mercati, recruiting aggressivo e mismanagement, ha fatto sì che in meno di quattro mesi venisse fatto ricorso dallo studio americano al “Chapter 11”. Mi sono ritrovato così, insieme con Stefano Speroni e Luca Dezzani, a trattare con gli Officer della procedura concorsuale e, dopo tre-quattro giorni “folli” in una trattativa serrata, siamo riusciti a portare a casa un risultato di cui tuttora sono particolarmente orgoglioso. A quel punto, Vittorio Grimaldi stava chiudendo la propria precedente esperienza professionale e abbiamo deciso di unire le forze con lui e Francesco Sciaudone.
Da Grimaldi al ritorno alla boutique. Perché questa scelta?
Dieci anni di esperienza e crescita in uno studio sempre più proiettato a livello internazionale con una alliance globale. Poi il Covid. Fermi tutti. Il ritorno alle origini. L’incertezza. Umana e professionale. Complice il blocco dei licenziamenti per due lunghi anni e il lockdown, con i miei soci ci siamo interrogati su quale progetto potesse emozionarci di nuovo, darci nuova linfa ed entusiasmo dopo un periodo così pesante. Con una grande voglia di ripartire, di lasciare il segno. Il riaffiorare di antichi stimoli. Abbiamo pensato anche a cosa potesse soddisfare il mercato ed è riemerso l’antico progetto dal quale tutti e tre avevamo preso le mosse: lo studio boutique. Ma non quello che avevamo in mente da giovani laureati, bensì una realtà sinergica che addirittura partisse dal web prima ancora di essere fisicamente realizzata, che prevedesse un’attenzione particolare alle relazioni internazionali, alla comunicazione professionale, al logo e alla struttura del sito web. Ecco, nasce da qui lo studio Zambelli & Partners. Mix di passione, progresso, globalizzazione e tecnologia. Ma soprattutto governato da un grande amore per il diritto e la giustizia.
Obiettivi futuri?
In questo momento la mia priorità è il recruiting: l’eccellenza oggi è diventata un’ossessione perché non possiamo permetterci un livello professionale che non sia quello di una boutique il cui nome rappresentativo racchiude 35 anni di carriera. Ricerchiamo quindi avvocati e talenti che padroneggino le lingue e la materia, cui affidare i nostri clienti. Dopodiché stiamo lavorando sui mercati internazionali. Appena lanciato il nuovo progetto sono stato contattato per entrare in un network internazionale di studi boutique dall’imprinting giuslavoristico che si è concretizzato a fine maggio a Berlino. Si tratta dell’inizio di un percorso dove il nome dello studio deve essere veicolato nelle varie associazioni professionali, dando così linfa alla nuova creatura. Per quanto riguarda l’espansione territoriale, non sono particolarmente ossessionato dall’aprire nuove sedi. Trovo che la piazza di Milano, con la rilevanza nazionale che riveste nel mondo del diritto del lavoro e delle relazioni industriali, possa essere per ora sufficiente. Tuttavia, laddove ci dovesse essere l’occasione di consolidarci a Roma, valuteremmo con attenzione un’opportunità del genere perché si tratta pur sempre di una piazza professionale molto interessante per il Centro e il Sud Italia.
Come è cambiato il concetto boutique da UST a Zambelli & Partners?
C’è un fil rouge che collega lo studio Toffoletto, dove ho iniziato la mia carriera forense, con quello attuale: l’eccellenza professionale. È difficile, infatti, che uno studio multipractice riesca a mantenere tutti i dipartimenti allo stesso standard qualitativo. Cosa che invece riesce più facile a una boutique. È chiaro però che, per restare sul mercato attuale, uno studio specializzato deve garantire ancor più di ieri quella qualità che fa sì che il cliente voglia rivolgersi a uno specialista anziché a un unico studio che soddisfi tutte le sue esigenze. L’eccellenza è proprio quel punto di contatto.
Inoltre, il mercato legale oggi è estremamente più maturo rispetto al passato. Il numero di avvocati è triplicato, se non di più. Il quadro regolamentare è particolarmente complicato e di difficile lettura. Ma tutto ciò determina anche l’esigenza di specialisti sempre più verticali nel loro sapere professionale. Paradossalmente, il fatto che l’ordinamento giuridico sia così articolato rende lo specialista ancora più necessario rispetto al passato.
Va da sé che anche uno studio boutique oggi debba comunque dotarsi di un elevato livello di tecnologia e di controllo di gestione, che forse 35 anni fa erano esigenze non sentite, certamente non implementate.
In queste settimane molti mi hanno chiesto il perché di un progetto che potrebbe apparire controcorrente. La verità è che non c’è una formula vincente per tutti e per sempre: si tratta di contesti, di chimica, di persone, solo talvolta di mercato. Ogni realtà ha i suoi pro e i suoi contra. Dipende spesso dal corpo sociale, dalle opportunità professionali, dalle visioni strategiche, ma anche dai sogni e dalle emozioni, dalle proprie passioni e dai propri valori. A quasi sessant’anni ho chiuso gli occhi e ho voluto fare ciò che mi rendeva felice, a prescindere da speculazioni o convenienze. Seguendo un amore per l’avvocatura che mi ha preso a 14 anni e che si è realizzato, guarda caso, proprio il 14 febbraio scorso.