Cosa è cambiato con la riforma

Migliorare il coordinamento tra i procedimenti penali e gli accertamenti
fiscali e razionalizzare il sistema. Questi gli obiettivi del nuovo impianto normativo che, con l’introduzione del reato di autoriciclaggio, ha favorito la riduzione degli illeciti e il controllo dell’evasione fiscale. Ne parlano alcuni esperti penalisti.

Il 7 ottobre 2015 è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto legislativo n. 158 del 24 settembre 2015 sui nuovi reati tributari. Il provvedimento, entrato in vigore il 22 ottobre 2015, si è inserito in un ampio disegno di riforma e ha avuto il merito di modificare il sistema delle sanzioni penali ed amministrative per le violazioni della legge tributaria.
[auth href=”https://www.lefonti.legal/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Il suo principale obiettivo, è stato quello di razionalizzare il sistema fiscale attraverso l’intervento, oltre che sul piano sanzionatorio, anche sulle procedure di riscossione, sul riordino delle agenzie fiscali, sulla stima e il monitoraggio dell’evasione fiscale.
Nel momento in cui è entrata in vigore, la riforma ha suscitato qualche dubbio, specialmente riguardo alla sua natura apparentemente troppo depenalizzante, tanto da far pensare che fosse stata redatta con il principale scopo di abolire crimini che il sistema giudiziario non era in grado di punire. Il dubbio scaturiva da alcune enunciazioni secondo cui “per dare attuazione ai principi di effettività, proporzionalità e certezza della risposta sanzionatoria”, il governo era autorizzato a ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità. L’innalzamento di tali soglie, però, è stato controbilanciato da nuove norme che hanno accentuato alcune sanzioni penali, e dall’estensione di condotte da un punto di vista sia soggettivo che oggettivo.
A due anni e mezzo dalla riforma, qual è l’attuale scenario del diritto penale tributario? In cosa la riforma ha inciso maggiormente? Con quali conseguenze?
Le Fonti Legal lo ha chiesto ad alcuni noti penalisti: Roberto Pisano di Studio legale Pisano, Giorgio Perroni di Perroni e Associati, Fabio Cagnola di Cagnola & Associati e Giuseppe Iannaccone di Studio Legale Avv. Giuseppe Iannaccone e Associati.

Un riforma necessaria La materia penale tributaria è da sempre oggetto, in Italia, di numerosi dibattiti. La ragione è da ricercarsi nella complessità del sistema giudiziario, nella scarsa razionalizzazione delle norme e nella mancanza di una loro chiarezza e corretta applicabilità ai casi concreti. Ecco perchè la riforma del 2015 è stata ritenuta necessaria, soprattutto se messa a confronto con le normative precedenti. «Con le modifiche introdotte dal d.lgs. 74/2000, dalla l. 311/2004 e dal d.l. 138/2011», spiega Fabio Cagnola di Cagnola & Associati «si era delineato un sistema di repressione dei reati tributari severo ed articolato; tuttavia, si era anche avuto l’effetto indesiderato di una certa perdita di armonia e razionalità, soprattutto per quanto concerneva i rapporti tra i meccanismi sanzionatori penali e quelli fiscali. Si avvertiva, insomma, l’esigenza, anche nell’ottica di un più rigoroso rispetto del principio di sussidiarietà della sanzione penale, di restituire equilibrio al sistema, seguendo il criterio ispiratore di un tendenziale arretramento del confine del penalmente rilevante». Come precisa Giorgio Perroni di Perroni e Associati, «l’obiettivo primo della riforma del 2015, è identificabile nel perseguimento di una maggiore razionalizzazione del sistema penale tributario da concretizzarsi merce’ un intervento organico che prevedesse, da un lato, l’inasprimento delle sanzioni per i fatti di reato di maggior gravità e, dall’altro, l’ampliamento della sfera del penalmente irrilevante». Di razionalizzazione ne parla anche Roberto Pisano, dello Studio legale Pisano, il quale, come gli altri, ha individuato nella riduzione dell’area del penalmente rilevante, l’obiettivo della legge delega in materia, «che ha riservato la sanzione penale alle condotte effettivamente più gravi finalizzate all’evasione fiscale, correggendo così certi eccessi sanzionatori che si erano registrati nel vigore della previgente disciplina».

Soglie di punibilità
Tra le modifiche più rilevanti della riforma, c’è stato l’intervento sulle soglie di punibilità di alcuni reati, per cui ne ha determinato un aumento o addirittura, in alcuni casi, una vera e propria modifica strutturale. Come spiega Giorgio Perroni «per quanto riguarda l’innalzamento delle soglie di punibilità, molte sono le fattispecie interessate dalla modifica: la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3); la dichiarazione infedele (art. 4); l’omessa dichiarazione (art. 5); l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis); l’omesso versamento di iva (art. 10-ter); l’indebita compensazione (art. 10-quater)». «Per le prime due»,  precisa Perroni «la riforma ha avuto la maggiore incidenza, tanto che oggi le due fattispecie contemplano degli elementi costitutivi diversi rispetto al passato».

Dichiarazione fraudolenta
La riforma del 2015 ha inciso sul reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 del D.lgs. n. 74/2000) e, più ancora, sul reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 del D.lgs. n. 74/2000). «Con riferimento all’art. 2», afferma Fabio Cagnola, «si registra un ampliamento della fattispecie astratta di reato, dal momento che la rilevanza penale della dichiarazione fraudolenta non è più circoscritta alle sole dichiarazioni annuali relative alle imposte dirette e all’Iva, ma include tutte le dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, come le dichiarazioni periodiche Iva e le dichiarazioni straordinarie in ipotesi di trasformazione, scissione, fusione, liquidazione, fallimento e liquidazione coatta amministrativa ex artt. 5 e 5bis del d.p.r. n. 322/1998». «Ma è soprattutto con riferimento al reato dichiarativo di cui all’art. 3» prosegue Cagnola «che si registrano i più profondi interventi modificativi: il legislatore è intervenuto da un lato operando sulle soglie di punibilità e sull’ampliamento della platea dei soggetti attivi del reato, e dall’altro lato delineando le condotte caratterizzate da fraudolenza, così da differenziarle da quelle in cui tale quid pluris è assente. In relazione a questo specifico punto, il legislatore del 2015 ha tipizzato, ricorrendo alla tecnica disgiuntiva (“ovvero”), diverse condotte fraudolente di supporto rispetto alla dichiarazione fiscale mendace (il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, l’utilizzo di documenti falsi oppure l’utilizzo di altri mezzi fraudolenti), tutte accomunate dalla necessaria idoneità ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria.  Quanto all’ampliamento del novero dei soggetti attivi del “nuovo” art. 3 va, poi, senz’altro segnalata la eliminazione dell’elemento della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie”, che ha trasformato il delitto in questione da reato proprio dei soli contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili a reato ascrivibile a qualunque soggetto tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi o Iva».

Dichiarazione infedele «L’articolo 4 (dichiarazione infedele)», puntualizza Giorgio Perroni «nella versione attualmente vigente, presenta un ambito applicativo certamente meno ampio rispetto al passato e ciò in coerenza con quanto previsto dalla Legge delega, la quale, all’art. 8, sollecitava il rispetto dei principi di offensività e sussidiarietà della norma penale e, quindi, l’esclusione dell’applicabilità di sanzioni penali in presenza di condotte che fossero meramente elusive dell’obbligo tributario». «Sul punto», continua Perroni, «assume particolare rilievo l’introduzione del comma 1 bis dell’art. 4 il quale prevede che, “ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati in bilancio ovvero in altra documentazione ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali”. Come puntualizza Cagnola, «è proprio con l’introduzione del comma 1-bis che si riscontrano gli effetti maggiormente tangibili della parziale abolitio criminis apportata dalla riforma del 2015». «Con ogni probabilità», continua Cagnola, «l’elevato rischio penale a carico del contribuente promanante dalla precedente formulazione dell’art. 4 del D.lgs. n. 74/2000 ha determinato il legislatore ad intervenire sul reato di dichiarazione infedele in senso marcatamente garantista, onde evitare il formarsi di qualsivoglia disincentivo alla allocazione delle imprese nel nostro territorio. In questa prospettiva, il comma 1-bis ha espressamente escluso la rilevanza penale delle condotte dichiarative legate ad una non corretta classificazione e valutazione di elementi attivi o passivi, rispetto alla quale siano stati indicati in bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali i criteri concretamente applicati, nonché delle condotte dichiarative costituenti violazioni delle norme fiscali in tema di criteri di determinazione dell’esercizio di competenza e in tema di non inerenza e non deducibilità dei costi reali. Proprio la penale irrilevanza della indicazione in dichiarazione dei costi indeducibili o non inerenti rappresenta la novità più rilevante, e si pone tra l’altro in perfetta linea di continuità con la modifica lessicale cui il legislatore del 2015 ha fatto luogo: si fa riferimento, in particolare, al superamento del concetto di fittizietà in favore del concetto di inesistenza degli elementi passivi. Superamento particolarmente significativo ove si pensi che l’interpretazione giurisprudenziale data al concetto di fittizietà (ossia come fittizietà normativa, non già naturalistica) determinava, prima del 2015, un ampliamento tale da far rientrare nell’ambito di operatività del reato in questione persino condotte meramente elusive.  Condotte, queste, che grazie al recente intervento di riforma, non hanno più alcun impatto sul piano penale, con inesorabili ricadute sui pregressi giudicati, ai sensi dell’art. 2 co. 2 c.p.». Cagnola fa riferimento alle ricadute legate al principio di irretroattività della norma penale previsto dall’art. 25, comma 2 Cost. e dall’art. 2 c.p. spiegando che «in quest’ultima disposizione in particolare, nei commi successivi al primo, viene consacrato anche il corrispondente principio di retroattività della norma penale di favore, sia pur con rilevanti distinzioni tra il comma 2 e il comma 4. Nel primo caso, infatti, viene descritta l’ipotesi della c.d. abolitio criminis, ossia di una legge successiva che priva di rilevanza penale un comportamento prima previsto come reato; nel secondo caso, invece, si è in presenza di una vera e propria successione di leggi penali nel tempo (c.d. abrogatio sine abolitione), in cui la legge successiva, pur introducendo un trattamento più favorevole, non elide la penale rilevanza di un certo comportamento, che, pertanto, continuerà a configurare una fattispecie astratta di reato. Ora, tra le due ipotesi di retroattività si registra una differenza di non lieve momento: solo nel primo caso l’applicazione retroattiva della nuova legge è idonea a scardinare il giudicato penale eventualmente occorso in precedenza, e ciò perché, tra i due valori della intangibilità del giudicato e della tutela della libertà personale, a prevalere è quest’ultimo. L’ordinamento, insomma, reputa non tollerabile che residuino effetti pregiudizievoli da condotte considerate penalmente lecite da una successiva valutazione da parte del legislatore. E, se all’art. 2 comma 2 c.p. il legislatore si preoccupa di stabilire il principio, all’art. 673 c.p.p. individua lo strumento per dare attuazione al predetto principio. Tale ultima disposizione, infatti, riconosce, a chi è stato condannato con sentenza passata in giudicato per un fatto che non è più previsto dalla legge come reato, la facoltà di adire il giudice dell’esecuzione al fine di ottenere la revoca della sentenza di condanna e di tutti i suoi effetti. Pertanto, a seguito della entrata in vigore del D.lgs. n. 158/2015, chi sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per una delle condotte elusive che, prima della riforma del 2015, rientravano nell’ambito di operatività del delitto di dichiarazione infedele (per esempio, quelle consistenti nella indicazione in dichiarazione di costi indeducibili o non inerenti), può avvalersi dello strumento dell’incidente di esecuzione di cui all’art. 673 c.p.p. per ottenere, in presenza dei requisiti di legge, la revoca della propria sentenza di condanna».

Omessa dichiarazione, omesso versamento e occultamento o distruzione di documenti contabili «Per quanto riguarda il reato di omessa dichiarazione», spiega Giuseppe Iannaccone di Studio Legale Avv. Giuseppe Iannaccone e Associati «questo punisce la semplice, mancata presentazione della dichiarazione annuale sui redditi o ai fini Iva. Oggi, da un lato, la soglia di punibilità è stata innalzata da 30.000 euro a 50.000 euro; dall’altro lato, è stato inasprito il trattamento sanzionatorio, cha passa dalla reclusione compresa tra 1 e 3 anni ad una reclusione oggi compresa tra un 1 anno e 6 mesi e 4 anni. Il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, ai sensi dell’art. 10 D.Lgs. 74/2000, punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o  distrugge le scritture   contabili  o  i  documenti  di  cui  è  obbligatoria  la conservazione; oggi la pena è stata aumentata, passando dalla precedente cornice edittale, compresa tra i 6 mesi e i 5 anni di reclusione,  ad una pena detentiva inclusa tra 1 anno e 6 mesi e 6 anni. Il reato di omesso versamento di ritenute certificate, ai sensi dell’art. 10 bis D.Lgs. 74/2000, punisce, al superamento di determinate soglie, il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti di imposta; oggi la soglia di rilevanza penale è passata da 50.000 euro a 150.000 euro, per ciascun periodo di imposta. Il reato di omesso versamento dell’Iva, ai sensi dell’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000, punisce il mancato versamento dell’Iva dovuta entro il termine del versamento della stessa per l’anno d’imposta successivo. Oggi è stata introdotta una soglia di punibilità di 250.000 euro, al di sotto dei quali operano esclusivamente le sanzioni amministrative».

Autoriciclaggio Altra novità significativa è l’entrata in vigore, dal 1 gennaio 2015, della nuova fattispecie dell’autoriciclaggio contemplata dall’art. 648 ter1 c.p. Questa, come spiega Roberto Pisano, «punisce con la reclusione da due a otto anni l’impiego, la sostituzione o il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, di denaro, beni o altre utilità provenienti da un delitto non colposo, da parte di chi ha concorso a commettere tale delitto cosiddetto presupposto e a condizione che le indicate condotte siano tali da “ostacolare concretamente l’identificazione” della provenienza delittuosa. Nell’ipotesi in cui il denaro, i beni o le altre utilità siano destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, le indicate condotte non sono punibili». «Ai sensi della disciplina previgente», prosegue Pisano, «al contrario, il soggetto concorrente nel reato cosiddetto presupposto risultava responsabile solo per tale reato, e non invece a titolo di riciclaggio, in virtù di un’apposita “clausola di riserva” (di esclusione da responsabilità penale) contenuta in seno alla fattispecie di riciclaggio, di cui all’art. 648 bis c.p. Nella pratica, la rivendicazione del concorso in un reato presupposto, spesso meno grave e soggetto a più rapida prescrizione del riciclaggio, era divenuta una delle più efficaci e sperimentate tecniche di difesa per andare esenti da responsabilità penale, rispetto a condotte assimilabili a quelle di riciclaggio. Ciò riconosciuto, non vi è dubbio, tuttavia, che, come rilevato in dottrina, l’introduzione della indicata fattispecie ponga delicati problemi di compatibilità con i principi di tassatività e certezza in materia penale, con un potenziale effetto moltiplicatore del delitto, tendente all’infinito».

“Ne bis in idem” tra diritto tributario e diritto penale
Il principio del ne bis idem, considerato espressione di una civiltà giuridica comune agli ordinamenti di tutti gli Stati democratici, come puntualizza Pisano, «è il principio che vieta una duplicazione di sanzioni, ed anche una duplicazione di procedimenti, in rapporto ad un fatto illecito che è sostanzialmente il medesimo». «Tale principio è previsto, in seno all’ordinamento penale italiano, dall’art. 649 cod. proc. pen., ed è consacrato a livello internazionale sia nell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Cedu”), e sia nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. È noto che in data 4 marzo 2014, la citata Corte Edu, nel caso Grande Stevens contro Italia, ha condannato l’Italia per violazione dell’indicato principio, in rapporto ad un illecito di manipolazione del mercato sanzionato dapprima in ambito amministrativo (da parte della Consob, ed in via definitiva da parte della Corte di Cassazione civile), e successivamente perseguito in ambito penale, in ossequio al principio del cosiddetto “doppio binario” che informa la legislazione italiana in materia. La Corte, nel qualificare di natura sostanzialmente “penale” le sanzioni formalmente amministrative previste dalla normativa italiana, ha concluso nel senso della violazione del citato principio del ne bis idem. Una problematica sostanzialmente analoga si è posta in rapporto al “doppio binario” sanzionatorio, amministrativo e penale, previsto in materia di illeciti tributari, ed ha interessato anche la Corte di Giustizia europea, in rapporto al citato art. 50 della Carta.
Al riguardo, tuttavia, occorre rilevare che in data 15 novembre 2016, nella causa A e B contro Norvegia, la Grande Chambre della Corte Edu ha notevolmente ridimensionato i principi affermati nella decisione Grande Stevens, ritenendo nella sostanza ammissibile, proprio in materia tributaria, ed in presenza di determinati parametri (una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra i due procedimenti), la duplicazione di procedimenti e di sanzioni in rapporto al medesimo fatto. Con la conseguenza che anche i giudizi attualmente pendenti dinanzi alla Corte di giustizia europea, concernenti il doppio binario italiano in materia tributaria, paiono destinati a sfociare in un’analoga pronuncia, tale da escludere la violazione del principio del ne bis idem.

Lacuna normativa Apparentemente completa, la riforma dei reati penal tributari ha in realtà mostrato un lato oscuro. A detta di Perroni, la lacuna più evidente nel nuovo quadro normativo è quella relativa alla posizione del sostituto d’imposta: «La disciplina introdotta con la recente riforma del 2015 prevede, infatti, una responsabilità del sostituto d’imposta nel solo caso in cui questi ometta di presentare la relativa dichiarazione (art. 5, comma 1bis, del D.Lgs 74/2000 ). Non è stata, invece, prevista una equivalente sanzione per il caso in cui il sostituto d’imposta presenti una dichiarazione infedele o fraudolenta; da ciò consegue che, stante il principio di stretta legalità cui il nostro ordinamento è informato, tali condotte, ancorché palesemente più gravi della mera omissione della presentazione della dichiarazione, non sono penalmente perseguibili».
Deflazione dei reati Nonostante le incertezze, la riforma ha avuto dei significativi effetti sull’andamento degli illeciti. Secondo Perroni «c’è stata una consistente deflazione del carico penale rispetto al passato». Dello stesso avviso è Pisano, che tiene a precisare che «la riduzione più significativa ha riguardato, in primo luogo, le fattispecie di omesso versamento Iva e omesso versamento di ritenute, proprio a causa dell’innalzamento delle soglie di punibilità. Secondo un’inchiesta de Il Sole 24 Ore, che ha collezionato i dati, aggiornati al 30 settembre 2016 e provenienti da 28 Uffici della Procura della Repubblica, la riduzione è stata di oltre il 75%». «Un notevole calo» prosegue Pisano, «si è registrato anche in rapporto ai delitti di omessa presentazione della dichiarazione (riduzione di oltre il 49%, in base alla fonte sopra citata) e dichiarazione infedele (riduzione di oltre il 44%, sempre in base alla fonte sopra citata). Un ruolo non trascurabile, inoltre, è da riconoscersi alla parallela, espressa previsione della irrilevanza penale dell’abuso del diritto/elusione fiscale, atteso che condotte siffatte, correttamente inquadrate, non sono in alcun modo riconducibili alle frodi fiscali in dichiarazione di cui agli artt. 2 e 3, e potevano essere unicamente ricondotte alla fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4».

Luci e ombre della riforma
Sebbene sia ancora presto per fare un bilancio definitivo, il nuovo provvedimento ha messo d’accordo i penalisti interpellati circa i suoi effetti positivi, suscitando però qualche perplessità sulla chiarezza di alcune sue disposizioni. Secondo Cagnola «apprezzabili sono parsi lo sforzo di razionalizzazione della materia e la decisione di arretrare in più punti la soglia della penale rilevanza degli illeciti tributari». A detta di Perroni «la riforma ha avuto il pregio di ridurre l’area del penalmente rilevante, chiarendo così come l’interesse dello Stato non sia quello di punire condotte inoffensive, bensì quello di sanzionare con fermezza i comportamenti fraudolenti. Giudizi positivi anche da parte di Pisano, secondo il quale la riforma è sicuramente condivisibile nelle sue linee ispiratrici, «consistenti, come già illustrato, nella riduzione dell’area del penalmente rilevante, e nell’obiettivo di riservare la sanzione penale alle condotte effettivamente più gravi finalizzate all’evasione fiscale, specie quelle connotate da fraudolenza, e di correggere certi eccessi sanzionatori che si erano manifestati nell’esperienza applicativa della disciplina previgente». Cagnola solleva, però, una critica alla riforma, con cui si è persa un’occasione per far chiarezza su talune tematiche: «Penso, ad esempio, alla nota problematica (acuita dalla crisi finanziaria degli ultimi anni) della scarsa ragionevolezza dei reati di omesso versamento (artt. 10-bis e 10-ter), introdotti intorno alla metà degli anni duemila.  Ma penso soprattutto allo scarso coordinamento tra la normativa penale e la disciplina fiscale sulla tassazione dei gruppi di società (in vigore dal 1 gennaio 2004). A fronte di tale innovazione legislativa sul piano strettamente tributario, non si è riscontrato alcun allineamento sul piano penale. Ancora oggi, infatti, a distanza di quasi quindici anni dall’entrata in vigore della normativa in tema di consolidato fiscale, nel diritto penale tributario manca una disciplina di coordinamento e chiarimento su come debbano atteggiarsi i criteri di imputazione della responsabilità penale rispetto a realtà societarie complesse, quali i gruppi di società. In altre parole, rispetto alle dichiarazioni consolidate, non è chiara la ripartizione delle eventuali responsabilità penali tra la società consolidante e le società consolidate. Pertanto, il tema delle implicazioni penali nei casi di tassazione consolidata di gruppo è particolarmente complesso e costituisce senz’altro un aspetto meritevole di specifica disciplina da parte del legislatore penale-tributario. Disciplina che, ad oggi, nonostante la riforma del 2015, non è stata ancora predisposta».
Anche a detta di Giuseppe Iannaccone la recente riforma potrà auspicabilmente favorire un migliore coordinamento tra i procedimenti penali e gli accertamenti fiscali del futuro, «tuttavia», aggiunge il penalista «da un punto di vista procedimentale, ritengo che i problemi generati dal doppio binario sanzionatorio risultino difficilmente risolvibili attraverso l’adozione di semplici provvedimenti legislativi. Piuttosto, una definitiva composizione della sovrapposizione funzionale tra il penale ed il tributario potrà aversi solo allorché i rispettivi organi inquirenti, l’Agenzia delle entrate, da un lato, e le Procure della Repubblica dall’altro, ammettessero l’esistenza di limiti normativi non travalicabili nello svolgimento delle rispettive attribuzioni. Detto in altri termini, credo che si tratti di un “problema culturale”: sarebbe cioè necessario che i Pubblici ministeri e gli agenti accertatori rinunciassero ad effettuare una “reciproca collaborazione investigativa all’arma bianca”, ma si rendessero conto di dover svolgere attività investigative autonome e differenti, ciascuna caratterizzata da propri limiti probatori. Sino ad allora, si continuerà ad assistere ad una vera e propria “frode delle etichette”: gli accertamenti tributari continueranno a poter essere utilizzati anche come indagini preliminari non garantite, e dunque non sarà certo infrequente assistere all’apertura di dibattimenti penali fondati su circostanze rilevanti solo in punto di diritto tributario, in alcun modo sufficienti ad integrare i requisiti oggettivi e soggettivi di un reato fiscale».

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