Parte la corsa delle pmi per adeguarsi al nuovo codice della crisi di impresa. Circa 170 mila aziende sono infatti chiamate a nominare organi di controllo interni entro il 20 agosto 2020, data di entrata in vigore definitiva del dlgs n. 14/2019. Professionisti e camere di commercio saranno al centro di questo processo: i primi, avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro, avranno il compito di “proteggere” le imprese dalla crisi; le seconde, dovranno organizzare i collegi, predisporre gli uffici del referente dell’organismo e così via. In questa intervista doppia sull’attuazione e gli effetti della riforma, Le Fonti Legal ha messo a confronto Carlo Alberto Giovanardi, avvocato esperto di restructuring partner dello studio legale Giovanardi-Pototschnig & associati, e Unioncamere, rappresentata dal presidente, Carlo Sangalli, e dal vice segretario generale, Sandro Pettinato
Carlo Alberto Giovanardi, quali sono gli effetti sulle imprese derivanti dall’entrata in vigore delle nuove norme contenute nella riforma del Codice della crisi d’impresa?
A mio avviso siamo di fronte a una riappropriazione da parte del giudice di ciò che il legislatore, fino al 2012 aveva cercato progressivamente di avvicinare al sistema economico. Questa sorta di “Restaurazione” porta instabilità, con il rischio di un costo sociale elevato, che il legislatore non sembra aver considerato. Con la nuova normativa si allarga l’ingerenza da parte del giudice, che incanala l’impresa verso un percorso obbligato, indipendentemente dalla natura e dalle cause della crisi. Poche sono le novità autentiche: ciò che è certo è che viene semplificata la caccia ai “colpevoli”, aprendo delle scorciatoie sia per l’individuazione dei responsabili, sia la quantificazione del danno. La prospettazione di un apparente modello normativo maieutico premiante, che in realtà semplifica il criterio precettivo sanzionatorio, non mi sembra un approccio funzionale alla prevenzione della crisi o alla sua risoluzione. I lavori in corso sulle misure d’allerta dimostrano che le indagini sulle analisi statistiche partite dai fallimenti non sono indicative della realtà di un sistema economico e produttivo. Tanto che oggi gli indicatori su cui si ragiona, per le misure di allerta, sono di insolvenza e non di crisi.
Quali i punti critici della riforma?
Non credo che siano le misure d’allerta a facilitare il salvataggio dell’impresa. Si è puntato molto sulla rilevanza del profilo finanziario per l’emersione della crisi, come detto, con criteri che sono di insolvenza. Il mondo sta andando oggi in una direzione diversa, valorizzando gli indicatori non finanziari. L’effetto anticipatorio di percezione di una crisi non si realizza partendo dai numeri, come è stato già rilevato da chi si sta dibattendo tra i falsi positivi e i falsi negativi. La riforma non mi sembra preluda a maggiori possibilità di successo, specie se le scelte di indirizzo saranno affidate a figure che non necessariamente sono portatori di capacità manageriali.
Sarà più difficile salvare le imprese?
Con gli strumenti messi a disposizione dalla normativa, la possibilità di intervento si incanala “tempestivamente” già in fase di piena insolvenza. La riforma ed il dibattito sulla riforma hanno svelato e continuano a svelare una reciproca mancanza di fiducia tra i vari soggetti seduti al tavolo della crisi, imprenditori, professionisti e consulenti, giudici, commissari, attestatori, organismi rappresentativi di categorie, ecc.. In un contesto corretto, il tavolo del giudice della crisi è un tavolo di volontaria giurisdizione, che dovrebbe vedere una relazione funzionale di collaborazione tra i vari attori. La riforma, che nasce dalla difficoltà incontrata dal giudice nel riconoscere e gestire l’abuso, finisce col presumerlo inibendo la collaborazione virtuosa tra ruoli complementari. L’esempio più palese viene dalla progressiva mortificazione del concordato preventivo, iniziata nel 2013. Oggi il concordato è stato di fatto marginalizzato senza alcuna garanzia di tutela effettiva dell’impresa e del creditore. Non sono né le soglie, né le maggioranze bulgare necessarie, né i tempi martellanti a scongiurare il rischio di abuso. Prima della controriforma del 2013 vi sono state operazioni di indubbio successo che oggi non sarebbero più fattibili, mentre anche oggi vediamo operazioni senza senso che vanno avanti a spintoni. Non considerare questi aspetti mette a rischio molte imprese che, se eliminate dal mercato, si traducono in un costo sociale in termini di disoccupazione, ammortizzatori sociali e perdita su crediti.
Ci saranno effetti differenziati su piccole, medie e grandi imprese?
Sono più a rischio le piccole e medie imprese, dato che una gestione efficiente della crisi nel momento in cui si manifesta tardivamente, richiede un impiego di energie altissimo. Le piccole imprese, inoltre, sono meno attrezzate e manca una cultura di controllo di gestione. Per quanto riguarda la norma sulla responsabilità degli amministratori, che è già in vigore, la ritengo di impatto assolutamente sovradimensionato: introduce un criterio sanzionatorio automatico su basi presuntive che si riflette sul regime della solidarietà passiva. Si rischia solidarietà sulla sanzione di condotte altrui, per ogni ipotesi di concorso anche marginale e inconsapevole, con una strumentalizzazione della norma in danno dei soggetti solvibili potenzialmente corresponsabili dell’aggravamento della perdita, ma non delle condotte da cui consegue la sanzione.
Come cambierà il ruolo degli avvocati?
Non cambierà molto. Dal lato creditore i livelli di attenzione sono tre: evitare condotte che costituiscano abuso, gestire il credito nel rispetto delle finalità costituzionali, conservare il valore tenuto conto dell’evoluzione della struttura patrimoniale delle imprese, cercando di non pregiudicare la continuità. Se invece non c’è prospettiva di continuità e manca la tenuta del conto economico almeno a livello di Ebitda, si tratta di ottimizzare le prospettive di recupero nel rispetto dei vincoli normativi. Una volta evitato il rischio on top rispetto al rischio di credito le due gradate possibilità riguardano la tutela del valore del credito o la tutela della recovery; in questo senso non cambia nulla. Dal lato debitore valgono ancora la tutela della condotta e della continuità, che di norma rappresenta la migliore garanzia per i creditori. La conservazione del valore dell’attivo per fronteggiare il passivo è un principio rispetto al quale la legge non porta novità per chi ha lavorato bene, ma bisogna essere in grado di dimostrare ex post la meritevolezza della condotta ex ante, cosa non facile in un sistema nel quale il valore dell’attivo è sempre più volatile e legittimamente volatile. Il clima di sfiducia portato dalla riforma non aiuta.
Carlo Sangalli, secondo gli ultimi dati Unioncamere-Infocamere su natalità e mortalità delle imprese italiane, il saldo 2018 è positivo ma segna un rallentamento rispetto al 2017. Come commenta?
La voglia di impresa degli italiani in questo periodo resta alta anche se si avvertono segnali di indebolimento da non trascurare. Occorre sostenere ancora questa vitalità imprenditoriale, anche se la sfida per il sistema Paese è quella di permettere alle aziende di restare sul mercato aiutandole a consolidarsi. Così si contribuisce anche alla stessa crescita occupazionale.
Sandro Pettinato, quali gli effetti sulle imprese derivanti dall’entrata in vigore delle nuove norme contenute nella riforma del Codice delle imprese?
È la vera e più importante novità introdotta dal Codice della crisi d’impresa che, com’è noto, riforma la vecchia legge fallimentare del 1942. Garantire che prima dell’avvio delle procedure concorsuali tradizionali, ci possa essere una “seconda chanche” per l’imprenditore e per l’impresa in crisi, che si possa prontamente segnalare la situazione di difficoltà e quindi avviare un tentativo di “ricomporre” la crisi risanando l’azienda, se ve ne sono le condizioni, è il vero spirito della riforma. Ogni anno vengono portate al fallimento oltre 11 mila imprese, ma se emergessero per tempo le condizioni che portano a questo malessere, a questa situazione di difficoltà, almeno il 30% di questo enorme “esercito” potrebbe essere salvato, semplicemente mettendo mano a processi di negoziazione con i creditori o intervenendo sull’organizzazione aziendale.
Ci saranno degli effetti differenziati su piccole, medie e grandi imprese? Se sì, quali?
Ovviamente il fattore dimensionale è importantissimo anche se la legge non differenzia su particolari metodi di “trattamento” per le piccole o le medie dimensioni. Certo che un conto è tentare di trovare soluzioni per aziende di dimensioni medio-grandi, dove il fattore occupazionale, gli effetti sull’indotto, le relazioni con i mercati di fornitura sono molto forti, un conto è la piccolissima dimensione. Non per questo però vanno “discriminate” le imprese minori. Un aspetto fondamentale, però, riguarderà l’introduzione delle procedure di allerta per tutte quelle imprese che fino a ieri non erano dotate del collegio sindacale e che invece, con l’entrata in vigore di questa norma, obbligherà circa 170 mila piccole imprese a nominare organi di controllo interni. Ci auguriamo che questo impatto non sia troppo forte non solo per le stesse aziende, ma soprattutto per le procedure di segnalazione e di eventuale composizione della crisi, la cui “prova di maturità” partirà dal 20 agosto 2020. Forse su questo aspetto si sarebbe potuto pensare ad una partenza graduale diversificando l’entrata in vigore del provvedimento.
Quale il ruolo di Unioncamere in questa prima fase di attuazione della riforma e come vi state attrezzando?
Come già detto le Camere di commercio hanno da gestire una fase che definirei cruciale per il funzionamento di tutto l’impianto normativo. Organizzare i collegi per la composizione delle crisi, predisporre gli uffici del referente dell’organismo, dotare le Camere di adeguate professionalità, debitamente formate, sostenere i forti costi di investimento per istituire tali uffici, così come per gestire i flussi documentali ed informatici con tutti gli attori coinvolti, e soprattutto garantire la funzionalità dell’intero procedimento con il massimo rispetto della riservatezza costituiscono una sfida eccezionale per le Camere di commercio alla quale non vogliamo né possiamo sottrarci. A questo scopo abbiamo già iniziato a simulare il processo di funzionamento degli Ocri, sotto ogni punto di vista: abbiamo stimato quante posizioni dovranno essere gestite annualmente, abbiamo verificato le risorse umane necessarie per soddisfare tale flusso, abbiamo simulato il funzionamento degli uffici che, lo ricordiamo, dovrà garantire in tempi strettissimi la composizione dei collegi. Infine, abbiamo già avviato tutti gli opportuni raccordi con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, con il mondo associativo, con i Tribunali e i cosiddetti creditori pubblici qualificati quali Inps, Agenzia delle entrate e Agenzia della riscossione.
Quali correttivi suggerite al legislatore per rendere la riforma più efficace?
Come accennavo prima sarebbe stata auspicabile una partenza graduale per le imprese. Da alcune analisi fatte recentemente il numero degli operatori coinvolti annualmente, a legislazione invariata, sarebbe di circa 40 mila soggetti. Se riuscissimo invece a graduare questo processo, inserendo tempi diversi per le imprese minori, per esempio, garantiremmo maggior efficacia a tutto il procedimento e sicuramente una partenza più dolce per aziende, uffici camerali e professionisti, facendo tesoro delle fisiologiche attività di “rodaggio” iniziale e garantendo qualità all’intera procedura. Inoltre, vi sono alcuni elementi che, legati alle stime, non devono essere sottovalutati. Mi riferisco per esempio al numero di professionisti da reperire sul mercato necessari a “ricoprire” le commissioni per le migliaia di casi che, dal 20 agosto 2020, si presenteranno. Dobbiamo essere certi di garantire le migliori professionalità che esistono, senza far gravare su di essi un numero di casi troppo elevato, massimo cinque all’anno: ciò rischierebbe di squalificare l’intero processo di riordino.